I ragazzi della casa al lago: intervista ai Fast Animals and Slow Kids

Gli indie rocker perugini ci hanno parlato del nuovo disco, “Forse non è la felicità”, delle “querce stanche” e del loro concetto di fare musica
Fast Animals and Slow Kids. Foto: Stampa

Fast Animals and Slow Kids. Foto: Stampa


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La prima volta che ho visto i Fast Animals and Slow Kids dovevano presentare Questo è un cioccolatinoil loro primo EP—come opening band in un piccolo festival a Perugia. Per una serie di questioni tecniche, gli fu negato lo spazio sul palco. Così, presi dallo spirito d’iniziativa, i ragazzi si sono messi a montare amplificatori e la batteria vicino alle spine della birra del chiosco del bar.

Morale della favola: hanno suonato sulla ghiaia davanti a una trentina di amici immersi in un polverone che solo la terra arsa dal sole può sollevare.
Da allora sono passati 7 anni e 4 album—tra cui anche Forse non è la felicità che uscirà il 3 febbraio. Ormai il loro posticino nella scena indie italiana se lo sono ritagliato e per loro fortuna non devono suonare più sulla ghiaia ma all’Alcatraz. Per capire cosa è cambiato nel corso del tempo, ho raggiunto Aimone, Alessandro, Jacopo e Alessio per parlare di un po’ di cose.

Allora, come sono andate le registrazioni del disco?
Aimone: Andare a registrare i dischi è la vacanza più grande che ci concediamo. Ci riuniamo sempre in una casa in riva al lago Trasimeno e ci viviamo per un mese. È un momento tutto nostro in cui ci svegliamo la mattina sapendo che l’unica cosa che dobbiamo fare è suonare. L’abbiamo registrato tra settembre e ottobre del 2016. La fase finale di missaggio è stata poi fatta da John Davis al Metropolis Studio di Londra, lo stesso che ha collaborato con gente come i White Lies, U2, Bat For Lashes e Jimmy Page.

I pezzi li scrivete nella casa al lago?
Aimone: Anche se gran parte dei testi sono scritti da me, in sala ci confrontiamo e finché non siamo tutti d’accordo su come deve uscire, il pezzo non esce.

Una delle cose che ho notato ascoltando il vostro ultimo album è che non avete abbandonato il vostro “distacco” dal sociale continuando a parlare del personale. Aimone: Ci sono alcune band che riescono a percepire quello che accade accanto a loro, che ne analizzano particolari e che coinvolgono gli ascoltatori descrivendo uno spaccato sociale. Quello che penso io è invece che chi ascolta una canzone la fa sua a modo proprio—almeno per me ha sempre funzionato così: ascolto una canzone e penso “oh, cazzo, questa canzone fa proprio per me” e quasi sempre erano canzoni che parlavano di vite altrui. La vita, soprattutto oggi, è troppo sfaccettata per essere descritta in una canzone e a noi piace pensare di farci portavoce soltanto di chi si riconosce nei nostri testi in quanto protagonisti e non come oggetto descritto.

Parlando un po’ del suono, mi sembra che avete rafforzato ulteriormente il concetto di “wall of sound” che era già presente inAlaska.
Alessandro: Veniamo dal mondo punk rock e quello ci ha sempre influenzato quindi da un lato dipende da quello, dall’altro, se nel corso del tempo questa cosa si è fatta più percettibile, è perché siamo cresciuti musicalmente. In Alaska paradossalmente ci sono molte chitarre in più che in questo disco, eppure sembra che qua ce ne siano di più. Semplicemente, andando avanti abbiamo capito, più o meno, cosa funziona e cosa non funziona di un nostro pezzo.

Jacopo: Un’altra cosa che abbiamo fatto mentre scrivevamo questo disco è stata tagliare tanti riff superflui. Una volta li buttavamo tutti dentro mentre su Forse non è la felicità siamo stati un po’ più attenti. Abbiamo anche ascoltato generi diversi tentando di reintepretarli a modo nostro.

Tipo?

Alessandro: C’è un pezzo che si chiama Capire un errore, per esempio, ed è nato ascoltando i Rolling Stones e così Annabelle che è figlia di ascolti su ascolti di Tumbling Dice.

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